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 Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi.

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MessaggioTitolo: Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi.   Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi. EmptyGio Lug 02, 2009 10:46 pm

ciao gente, leggo e rigiro un'analisi molto lucida e - dal mio punto di vista - molto condivisibile scritta da Fabio Amato, responsabile esteri di Rifondazione Comunista.

buona lettura!

Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi. di Fabio Amato


L’Iran, dal 12 Giugno, è scosso da manifestazioni senza
precedenti. Migliaia di giovani e non solo, sono scesi in piazza contro
elezioni secondo loro truccate, sfidando persino i divieti della guida
suprema e la certezza della brutale repressione. Sono motivati da un
desiderio di cambiamento che va ben al di là delle promesse del
candidato Mousavi, impropriamente definito moderato o riformista dai
media occidentali. Media dalla memoria corta, o proprio senza memoria.
Mousavi, il “moderato”, non è un personaggio esterno al regime degli
Ayatollah, ma una delle sue varianti. E’ stato primo ministro negli
anni '80, quelli della repressione del regime khomeinista nei confronti
delle forze politiche di opposizione, secolari, laiche e progressiste.
Fra questi i comunisti, decimati, fucilati a migliaia dal “moderato”
Mousavi. E’ stato il primo ministro che ha gestito l’affare
Iran-Contras.


Per questo viene spacciato come moderato, in quanto la categoria
di moderato, in occidente, si applica a coloro i quali sono disponibili
a fare affari, non alla democrazia o alla libertà, variabili del tutto
dipendenti dagli interessi delle potenze occidentali, che si applicano
a seconda dei casi. Vedasi i “moderati” Mubarak, Ben Ali, o i
governanti Sauditi. Le elezioni iraniane, per tentare di fare un
esempio improprio, ma che dà il senso delle distanze reali fra i due
maggiori contendenti alla Presidenza della Repubblica,
assomiglierebbero ad una scelta, in Italia, fra Gasparri e Schifani. A
voi la scelta su chi definire riformista o moderato dei due. Varrebbe
la pena di farsi massacrare per uno dei due ? No, evidentemente.


E’ quindi ben altro ciò che muove questa rivolta, che sfugge di
mano anche a chi magari pensava di usarla per un regolamento di conti
interno al regime. Fra i Palazzi del potere della Repubblica islamica
si è aperto uno scontro che sullo sfondo della manifestazioni di questi
giorni sta ridefinendo la mappa del potere interna al regime. In cui le
chiavi sono in mano della guida suprema, al Khameini, incalzato dal
potentissimo Rasfajani, alla guida dell’assemblea degli esperti,
l’organismo che potrebbe, secondo l’ordinamento della Repubblica
Islamica, rimuovere Khamenei. Per questo non è facile prevedere come
finirà questa rivolta. Se basterà un accordo di vertice a mettere fine
alle mobilitazioni, lasciando che tutto si risolva nel perimetro della
teocrazia, o se le rivolte intaccheranno in modo irreversibile il
carattere del regime degli Ayatollah.



Non a caso in questi ore si cerca di dividere coloro i quali
manifestano per un disappunto riguardante i brogli, e chi, invece,
definito provocatore, aspira ad un radicale cambiamento del regime e
della sua natura teocratica. Se è vero che nelle mobilitazioni emerge
una frattura anche sociale, fra la popolazione urbana, la classe media
e il resto del paese, sarà il comportamento dei lavoratori, dei più
poveri del paese a decidere le sorti di questa rivolta, la più
imponente dai giorni della rivoluzione ad oggi. Lo sciopero generale è
la carta che si tenterà di giocare per saldare la popolazione delle
città con il resto della Persia. Non sarà semplice, poiché, come
ricordava un saldatore in un reportage su Repubblica del 12 Giugno :
«Voi venite da Teheran nord e non potete capire» «Ahmadinejad ha
aumentato del 50% le pensioni. Mio padre ora riesce a campare con
458mila tuman (380 euro). Prima ne prendeva 270mila. Ha permesso agli
artigiani di venir curati gratis in caso di infortuni sul lavoro".


Ahmadinejad inoltre è un baluardo dei militari, dei pasdaran,
che hanno goduto, a scapito del clero sciita, dei benefici donati loro
dal loro uomo alla presidenza. E’ stato però anche protagonista di
politiche economiche che hanno creato aumento dell’inflazione, della
disoccupazione, producendo non pochi conflitti e resistenze in questi
anni, fra cui lo sciopero dei bazari. Ma le ragazze e i ragazzi che
manifestano per le strade di Teheran, non sono mossi da forze esterne.
Questa esplosione di rabbia nasce all’interno della società iraniana,
una società molto più complessa e articolata di quanto si pensi.
Aspirano a poter rompere la gabbia di un potere religioso che soffoca
qualsiasi istanza di libertà. Di liberarsi da una democrazia
controllata e da un regime in cui l’ultima parola spetta non al popolo,
ma al clero.


Non si tratta, per le forze progressiste e comuniste, di
schierarsi con uno o l’altro dei contendenti dello scontro elettorale.
Si tratta di sostenere il popolo iraniano, nella sua legittima
ribellione contro il regime teocratico.

Fabio Amato, responsabile nazionale Esteri Prc-Se

http://home.rifondazione.it/xisttest/content/view/6139/314/
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MessaggioTitolo: Re: Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi.   Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi. EmptyVen Lug 03, 2009 11:34 am

Lucida???
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MessaggioTitolo: Re: Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi.   Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi. EmptyVen Lug 03, 2009 12:33 pm

condivisibile?

tu come la vedi??
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MessaggioTitolo: Re: Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi.   Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi. EmptyVen Lug 03, 2009 12:58 pm

Male.

Mi pare che l'autore dimostri scarsa conoscenza sia della situazione Iraniana in generale sia degli eventi in corso. Non si capisce dove voglia andare a parare se non quando si scaglia contro la teocrazia che soffoca la libertà dei popoli. Che poi non si capisce chi la dovrebbe abbattere secondo lui visto che i manifestanti sostengono un candidato anch'esso espressione più o meno diretta del Clero. Ingnora poi o finge di ignorare che i "verdi" sono comunque espressione di una parte della nuova classe medio-borghese iraniana (e solo ed esclusivamente di quella), oltre che evidentemente di interessi sovranazionali, come più volte ribadito.
Mi sembra sostanzialmente la solita pancottiglia pseudo umanitaria e pseudo libertaria, senza alcuna analisi seria delle cause e delle prospettive geopolitiche, a cui la sinistra nosrana, radicale o meno, ci ha ormai abituati, se è vero che anche i "disobbedienti" di casarini sono scesi giorni fa in piazza (occupando non so cosa a Venezia o Padova...) a favore di Mousavi (pensa te...)...
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MessaggioTitolo: Re: Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi.   Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi. EmptyDom Lug 05, 2009 11:17 am

Alle 10 in punto di ogni sera Teheran viene sovrastata da un composito ma unico grido di protesta: dai tetti delle proprie abitazioni migliaia di uomini e donne, giovani e non, urlano slogan e cori, "Allah u Akbar", ricalcando uno dei tratti caratteristici della rivoluzione del '79. A trentanni dalla rivolta che cacciò lo Shah contesto e dimensione dell'oggi sono diversi da allora, la storia non si ripete mai uguale a se stessa, in un corso storico iraniano all'interno del quale hanno agito e agiscono perennemente trasformazioni e conflitti. Permane l'interesse per un movimento che sta scombussolando l'Iran e il suo centro di potere, la vita di migliaia di persone e che indubbiamente inciderà nel futuro del paese persiano; resta da capire in quale misura e direzione, cercando di comprenderne composizione sociale e natura politica, partendo da un piano complesso e peculiare necessario per tentare di leggere come e verso cosa si muove l'Iran.


Onda verde: in piazza "con Moussavi", senza le parole di Moussavi

Cambio fase? Dalla sera del 12 giugno la rivolta sta percuotendo l'Iran, con Teheran come centro nevralgico dove si sta giocando in prevalenza la partita. I riot spontanei diffusosi poco dopo la proclamazione della vittoria elettorale di Ahmadinejad sono proseguiti su livelli intensi per giorni, interrotti da irreali tregue mattutine, reggendo l'urto dell'azione poliziesca. I cortei esondanti, gli scontri con la polizia, le grida serali dai tetti non hanno ancora registrato uno stop. Il ripetuto annuncio dell'esercizio della repressione da parte delle autorità iraniane, in parallelo con il crescere del numero dei morti e degli arresti in piazza, ha probabilmente contribuito a far decrescere l'intensità e la continuità delle discese in strada, il che è vero fino ad un certo punto, perchè ciò deve essere contestualizzato nel passaggio di fase che è in atto per l'Onda verde: l'altro giorno erano comunque migliaia e migliaia gli uomini e le donne a scontrarsi con la polizia ed assediare il parlamento in piazza Baharestan. Donne prepotentemente protagoniste in tutti gli aspetti della mobilitazione, le foto testimoniano la loro poderosa presenza, i video mostrano la loro determinazione.

Polizia inOndata Segni anch'essi dell'incisività e della portata politica assunta dall'Onda verde sono le voci e i comportamenti che si registrano nella base delle forze armate iraniane. Diversi reportage da Teheran riportano della diffusione del loro nervosismo e dell'inclinazione defettiva verso gli ordini repressivi ed il comportamento da tenere in piazza. Sul sito Peiknet è presente la dichiarazione che avrebbe fatto un gruppo di comandanti dei Pasdaran: "La situazione attuale è molto imbarazzante e fonte di preoccupazione. La linea di condotta del governo nei confronti della popolazione manifestante, negli ultimi giorni, è distante dagli ideali trasmessi dall'Ayatollah Khomeini. Nel caso dovessero continuare queste barbariche repressioni ci schiereremo in favore della popolazione". L'allusione è alle milizie Basiji, braccio armato paramilitare alle dipendenze della Guida Suprema che sta agendo duramente contro le manifestazioni con sanguinose sortite in sella alle motociclette. Non è rarissimo, superata la prima dirompente fase della rivolta, assistere tra le fila della polizia al loro costituirsi da cuscinetti tra manifestanti e uomini dei Basiji, al rifiuto di intervenire contro la folla, a volte ritirandosi spontaneamente. Una scenario simile, seppur estremamente diverso e di altro livello, si è verificato anche lo scorso dicembre nella Grecia in rivolta, con un gruppo di militari che ha inoltre diramato un documento contro la repressione delle piazze.

"Indietro non si torna" Che ne dicano media e politica occidentali (che continuano ad insistere strumentalmente sulla questione dei brogli elettorali che secondo loro hanno permesso ad Ahmadinejad di vincere), pur rifiutando un ragionamento che chiami in causa "dittatura della maggioranza" et similia, è da considerare, per capire il piano dentro il quale si sta dando la rivolta dell'Onda verde, il sostegno di cui indubbiamente gode il presidente Ahmadinejad soprattutto nelle zone rurali dell'Iran, che rendono ridicoli coloro che sostengono che il reale peso elettorale dell'ala conservatrice sarebbe stata del 12%, sbugiardati già solo dalla visibile popolarità del presidente manifestatasi durante la campagna elettorale. Ciò, se da una lato conferma la complessità del paese Iran, dall'altro non depotenzia la straordinarietà dell'Onda, calibrando i moti sociali in atto come tangibile voglia di protagonismo e cambiamento di larghe fette della società iraniana, usando come pretesto la contingenza dei brogli elettorali e come ariete di comodo Moussavi. Non è l'ex candidato riformista il motore di questa sommossa, ma la voglia di libertà e spazi di una generazione giovanile cresciuta sotto l'ombra di una cornice di repubblica islamica che non si vuole rovesciare ma far correre lungo i binari di una trasformazione progredente. Qualunque sarà l'epilogo di una rivolta che in tanti vorrebbero poter spudoratamente sovra-ordinare (dall'estero), l'Iran di domani non sarà più lo stesso di quello di ieri; una delle parole d'ordine per le strade di Teheran resta "indietro non si torna".

La bramosa rappresentazione mediatica della rivolta in Occidente

Ma che rivoluzione di velluto! "Non penso che in Iran ci sia una di quelle rivoluzioni colorate che piacciono in Occidente", questo il pensiero di Alastair Crooke, fondatore del think tank "Conflict forum", esperto di movimenti politici musulmani e di politica mediorientale. I media mainstream occidentali, nel loro presappochismo ed isterismo, stanno facendo interessatamente a gara per coprire ed appoggiare la rivolta dei giovani iraniani, abbandonandosi ad una copertura mediatica per lo più confacente ai loro desideri che altro. Quindi, utilizzando un discutibile metodo di captazione delle informazioni (prevalentemente Twitter & fratelli), infarciscono da 2 settimane le prime pagine di televisioni e giornali con una stucchevole propaganda contro il regime iraniano, battendo il ferro: sulla falsata rappresentazione di una presunta dittatura atroce, sull'enfatizzazione dilatata di una repressione che pur indiscutibilmente c'è, sull'entusiasmo anomalo per una conflittualità di piazza che se ne frega però di formalità democratiche e legalitarie, sull'ostentata sicurezza della reale esistenza dei brogli elettorali quindi a ruota non cogliendo palesemente la portata di quel che sta succedendo in Iran. Stampa che si è autoproclama, conseguentemente, megafono del pattuito sdegno occidentale contro l'Iran di Ahmadinejad, sponsorizzando implicitamente interferenze interessate e retoriche umanitarie.

I nuovi ultras del conflitto I fustigatori di ogni benchè minimo sussulto di rottura della troppo imperante pace sociale occidentale si riciclano in cultori e tifosi del conflitto per l'Iran, scandalizzandosi e costruendo intere notizie sul semplice (fuori dai denti: attaccare la polizia a suon di pietre comporta una sua reazione!) lancio di gas lacrimogeni, martirizzando impudicamente chi resiste per le strade di Teheran (la vicenda drammatica della morte della ragazzina Neda ne è un suo fanatico prodotto). Il resto è melina retorica e valorizzazione del comodo: la sommossa in Iran ha fatto resuscitare Ciro Reza Pahlavi, figlio primogenito dello Shah persiano trapiantatosi e rifugiatosi a Washington, in lacrime ha straparlato di democrazia da asportare e diritti umani da ripristinare; l'avvocatessa premio Nobel Shirin Ebadi, nel continuo dell'implementazione del suo conquistato ruolo di faccia buona e compatibile dell'Iran islamico, si è riproposta come gufo della rivoluzione iraniana, invocando l'intervento delle Nazioni Unite. Insomma, chi è fuori dalla mischia parla di rivoluzione contro il regime, chi è in piazza lotta e immagina altro.

I nuovi paladini della giustizia dell'Occidente: attorno la guerra, in Iran per la pace

Medioriente di guerra L'Iran, uno dei pochi fazzoletti di terra sottratti agli interessi imperialistici, si presenta, guardando la cartina politica, come anomalia dentro un quadro mediorientale di guerra e occupazione. Tutto attorno imperano conflitti che si trascinano da decenni, in parallelo ad una soffocante presenza militare statunitense. Iraq, Afghanistan, Palestina, Pakistan: le guerre dell'Occidente. Lasciano quindi veramente il tempo e la credibilità che trovano le dichiarazioni di quel manipolo di capi di Stato e ministri degli esteri nelle ultime settimane impegnati a nascondere il fucile che tengono tra le mani nella regione per spendersi nel ruolo di colombe e improvvisati paladini della giustizia. Gli stessi attori che hanno sostenuto e ardito la spirale di guerra dentro la quale è immerso il Medioriente, spargendo morte dolore e terrore, pretendono un'aurea pace per l'Iran...

Occidente interessato Ancor prima delle elezioni iraniane il presidente degli Stati Uniti Obama aveva capito di non poter sperare di fare, comunque andasse, i conti senza l'oste: "La differenza politica fra il presidente iraniano Ahmadinejad e il suo sfidante Moussavi non è così forte come sembra. Dovremo trattare in Iran con un regime ostile agli Stati Uniti". Allo scoppiare dei tumulti in Iran l'atteggiamento della Casa Bianca si è mantenuto di basso profilo, "Obama turbato", "Rispetto della sovranità della repubblica islamica", "Continuare a cercare il dialogo diretto con Teheran". Con l'affiorare delle intromissioni diplomatiche da parte di Gran Bretagna Germania e Francia la situazione è andata precipitando, l'Iran ha accusato la Gran Bretagna ed espulso i diplomatici dal paese (venendo ripagato con la stessa moneta), Israele ha felicemente riacceso i suoi motori di guerra ammonendo il mondo sull'ancora più pericolosa minaccia costituita dalla repubblica islamica. Obama si è quindi sporto in una pubblica dichiarazione di appoggio con la protesta, facendo leva sulla centralità simbolica della presa di posizione da parte degli Stati Uniti sulla situazione in Iran, scivolando, seppur in un clima concorde ed unanime nelle segreterie politiche dell'Occidente, in paternalistiche affermazioni che han trattato l'Iran come se fosse una "repubblica delle banane". Un bieco fare interessato, sperando di far crollare la repubblica islamica per superare gli scogli che questa rappresenta, dal nucleare alla rete di appoggio ai movimenti di resistenza della regione.

Le reazioni in Iran Interferenze respinte dalle autorità iraniane, le quali hanno fatto seguire piccate risposte al vetriolo contro i governi che non si sono tenuti dal ficcare il naso in un affare che non può che essere solamente iraniano, in mano ad un centro di potere assediato da migliaia di uomini e donne in piazza per un futuro che vogliono vivere e costruire loro, declinando i "pacchetti del tutto compreso" che tanti vorrebbero propinargli. Teheran ha inoltre profittato dell'impasse internazionale per denunciare strumentalmente la presenza di forze esterne presunte fomentatrici dei disordini, nel tentativo di far breccia nel sentire di un popolo orgoglioso per natura, per biasimare chi è in piazza: la reazione è stata speculare all'azione delle intromissioni delle diplomazie occidentali.
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MessaggioTitolo: Re: Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi.   Iran: sostegno alla rivolta, non a Mousavi. EmptyLun Lug 06, 2009 12:07 pm

Tratto da:
Eurasia


Fallisce in Iran la « rivoluzione colorata »
:::: 2 Luglio 2009 :::: 3:45 T.U. :::: Analisi - Iran :::: Thierry Meyssan

La tecnica dei colpi di Stato dal basso. Fallisce in Iran la « rivoluzione colorata »

di Thierry Meyssan*

La « rivoluzione verde » di Teheran è l’ultimo avatar delle « rivoluzioni colorate » che hanno permesso agli Stati Uniti d’imporre in parecchi paesi dei governi al loro soldo senza dover ricorrere alla forza. Thierry Meyssan, che ha consigliato due governi di fronte a queste crisi, analizza questo metodo e le ragioni del suo fallimento in Iran.

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24 giugno 2009

Le « rivoluzioni colorate » stanno alle rivoluzioni come il Canada Dry sta alla birra. Vi assomigliano ma non ne hanno il sapore. Sono dei cambi di regime che hanno l’apparenza di una rivoluzione, in quanto mobilitano vasti settori del Popolo, ma rientrano nel colpo di Stato in quanto non mirano a cambiare le strutture sociali, ma a sostituire un’élite ad un’altra per condurre una politica economica ed estera filo-USA. La « rivoluzione verde » di Teheran ne è l’ultimo esempio.

Origine del concetto

Questo concetto compare negli anni 90, ma trova le sue origini nei dibattiti USA degli anni 70-80. Dopo le rivelazioni a catena sui colpi di Stato fomentati dalla CIA nel mondo e dopo che le commissioni parlamentari Church e Rockefeller [1] hanno ampiamente vuotato il sacco, l’ammiraglio Stansfield Turner viene incaricato dal presidente Carter di ripulire l’agenzia e di far cessare ogni sostegno alle « dittature fatte in casa ». Furenti, i social-democratici statunitensi (SD/USA) lasciano il Partito democratico e raggiungono Ronald Reagan. Si tratta di brillanti intellettuali trotzkisti [2], spesso legati alla rivista Commentary. Quando Reagan viene eletto, affida loro il compito di continuare l’ingerenza USA, ma con altri metodi. È così che essi creano, nel 1982, la National Endowment for Democracy (NED) [3] e, nel 1984, l’United States Institute for Peace (USIP). Le due strutture sono organicamente collegate: alcuni amministratori della NED siedono nel consiglio di amministrazione dell’USIP e viceversa.

Giuridicamente, la NED è un’associazione non a scopo di lucro, di diritto USA, finanziata da una sovvenzione annuale votata dal Congresso all’interno di un budget del dipartimento di Stato. Per condurre le sue azioni, essa le fa co-finanziare dall’US Agency for International Development (USAID), anch’essa legata al dipartimento di Stato.
In pratica, questa struttura giuridica non è che un paravento utilizzato congiuntamente dalla statunitense CIA, dal britannico MI6 e dall’australiano’ASIS (e, occasionalmente, dai servizi canadesi e neozelandesi).
La NED si presenta come un organo di « promozione della democrazia ». Essa interviene sia direttamente, cioè attraverso uno dei suoi quattro tentacoli : uno destinato a corrompere i sindacati, un secondo incaricato di corrompere gli imprenditori, un terzo per i partiti di sinistra ed un quarto per quelli di destra ; sia, ancora, con l’intermediazione di fondazioni amiche, come la Westminster Foundation for Democracy (Regno Unito), l’International Center for Human Rights and Democratic Development (Canada), la Fondation Jean-Jaurès e la Fondation Robert-Schuman (Francia), l’International Liberal Center (Svezoa), l’Alfred Mozer Foundation (Paesi Bassi), la Friedrich Ebert Stiftung, la Friedrich Naunmann Stiftung, la Hans Seidal Stiftung e la Heinrich Boell Stiftung (Germania). La NED rivendica di aver così corrotto nel mondo più di 6 000 organizzazioni in una trentina d’anni. Tutto ciò, beninteso, mascherato sotto l’apparenza di programmi di formazione o di assistenza.

Per quanto riguarda l’USIP, si tratta di un’istituzione nazionale statunitense. È sovvenzionato annualmente dal Congresso nel budget del dipartimento della Difesa. A differenza della NED, che serve da copertura ai servizi dei tre Stati alleati, l’USIP è esclusivamente statunitense. Sotto la copertura della ricerca in scienze politiche, può stipendiare delle personalità politiche straniere.

Da quando dispone di risorse, l’USIP finanzia una nuova e discreta struttura, l’Albert Einstein Institution [4]. Questa piccola associazione di promozione della non violenza è inizialmente incaricata di ideare una forma di difesa civile per le popolazioni dell’Europa occidentale in caso di invasione del Patto di Varsavia. Essa prende rapidamente autonomia e modella le condizioni per cui un potere statuale di qualsiasi natura possa perdere la sua autorità e crollare.

Primi tentativi

Il primo tentativo di « rivoluzione colorata » fallisce nel 1989. Si tratta di rovesciare Deng Xiaoping appoggiandosi su uno dei suoi vicini collaboratori, il segretario generale del Partito comunista cinese Zhao Ziyang, in modo da aprire il mercato cinese agli investitori statunitensi e da far entrare la Cina nell’orbita USA. I giovani sostenitori di Zhao invadono piazza Tienanmen [5]. Dai media occidentali sono presentati come degli studenti apolitici che si battono per la libertà contro l’ala tradizionale del Partito, mentre si tratta di una dissidenza tra nazionalisti e pro-USA all’interno della corrente di Deng. Dopo aver a lungo resistito alle provocazioni, Deng décide di concludere con la forza. Secondo le fonti, la repressione fa tra i 300 e i 1.000 morti.
Vent’anni dopo, la versione occidentale di questo mancato colpo di Stato non è cambiata. I media occidentali che recentemente hanno parlato del suo anniversario presentandolo come una « rivolta popolare » si sono stupiti che i Pechinesi non abbiamo mantenuto il ricordo dell’avvenimento. Il fatto è che una lotta interna al Partito non ha niente di «popolare». Essi non si sono sentiti coinvolti.

La prima « rivoluzione colorata » ha successo nel 1990. Mentre l’Unione Sovietica è in via di dissolvimento, il segretario di Stato James Baker si reca in Bulgaria per partecipare alla campagna elettorale del partito pro-USA, abbondantemente finanziato dalla NED [6]. Tuttavia, malgrado le pressioni del Regno Unito, i Bulgari, impauriti dalle conseguenze sociali del passaggio dell’URSS all’economia di mercato, commettono l’imperdonabile errore di eleggere al Parlamento una maggioranza di post-comunisti. Mentre gli osservatori della Comunità europea certificano la validità dello scrutinio, l’opposizione filo-USA urla alla frode elettorale e scende in piazza. Installa un accampamento nel centro di Sofia e fa piombare il paese nel caos per sei mesi, finché il Parlamento elegge come presidente il filo-USA Zhelyu Zhelev.

La « democrazia » : vendere il proprio paese ad interessi stranieri all’insaputa della sua popolazione

Da allora, Washington non cessa di organizzare, un po’ ovunque nel mondo, cambi di regime attraverso l’agitazione di piazza anziché per mezzo di giunte militari. Quello che importa è mettere in luce le implicazioni.
Al di là del discorso lenitivo sulla « promozione della democrazia », l’azione di Washington mira all’imposizione di regimi che le aprano senza condizioni i mercati interni e che si allineino sulla sua politica estera. Ora, se questi obiettivi sono conosciuti dai dirigenti delle « rivoluzioni colorate », essi non sono mai discussi ed accettati dai manifestanti che essi mobilitano. E, nel caso in cui questi colpi di Stato riescano, i cittadini non tardano a rivoltarsi contro le nuove politiche che vengono loro imposte, anche se è troppo tardi per tornare indietro.
Del resto, come si può considerare « democratiche » delle opposizioni che, per prendere il potere, vendono il loro paese ad interessi stranieri all’insaputa della loro popolazione ?

Nel 2005, l’opposizione kirghisa contesta il risultato delle elezioni legislative e conduce a Bishkek dei manifestanti dal Sud del paese. Essi depongono il presidente Askar Akaïev. E’ la « rivoluzione dei tulipani ». L’Assemblea nazionale elegge come presidente il filo-USA Kurmanbek Bakiev. Non riuscendo a controllare i suoi sostenitori che saccheggiano la capitale, egli dichiara di aver cacciato il dittatore e finge di voler creare un governo di unione nazionale. Fa uscire di prigione il generale Felix Kulov, ex sindaco di Bishkek, e lo nomina ministro dell’Interno, poi Primo ministro. Quando la situazione è stabilizzata, Bakaiev si sbarazza di Kulov e vende, senza possibilità di una contro-offerta e con successivi accordi sottobanco, le poche risorse del paese a delle società USA ed installa una base militare USA a Manas. Il livello di vita della popolazione non è mai stato così basso. Felix Kulov propone di risollevare il paese federandolo, come nel passato, alla Russia. Non ci mette molto a tornare in prigione.

Un male per un bene ?

Nel caso di Stati sottoposti a regimi repressivi, talvolta si obietta che se tali « rivoluzioni colorate » apportano solo una democrazia di facciata, in ogni caso esse procurano un miglioramento alle popolazioni. Ora, l’esperienza mostra che niente è meno sicuro. I nuovi regimi possono rivelarsi più repressivi dei vecchi.

Nel 2003, Washington, Londra e Parigi [7] organizzano la « rivoluzione delle rose » in Georgia [8]. Secondo uno schema classico, l’opposizione denuncia dei brogli elettorali alle elezioni legislative e scende in piazza. I manifestanti costringono alla fuga il presidente Eduard Shevardnadze e prendono il potere. Il suo successore Mikhail Saakashvili apre il paese agli interessi economici USA e rompe con il vicino russo. L’aiuto economico promesso da Washington per sostituirsi all’aiuto russo non arriva. La già compromessa economia crolla. Per continuare ad accontentare i suoi mandanti, Saakashvili deve imporre una dittatura [9]. Chiude dei media e riempie le prigioni, il che non impedisce per niente alla stampa occidentale di continuare a presentarlo come « democratico ». Condannato alla fuga in avanti, Saakashvili decide di rifarsi una popolarità gettandosi in un’avventura militare. Con al’aiuto dell’amministrazione Bush e di Israele, al quale ha affittato delle basi aeree, bombarda la popolazione dell’Ossezia del Sud facendo 1.600 morti, la maggior parte dei quali ha anche la nazionalità russa. Mosca risponde. I consiglieri statunitensi ed israeliani se la svignano [10]. La Georgia viene devastata.

Basta !

Il meccanismo principale delle « rivoluzioni colorate » consiste nel focalizzare il malcontento popolare sul bersaglio che si vuole abbattere. Si tratta di un fenomeno di psicologia delle masse che spazza via tutto al suo passaggio ed al quale nessun ostacolo ragionevole può essere opposto. Il capro espiatorio è accusato di tutti i mali che affliggono il paese da almeno una generazione. Più egli resiste, più cresce la collera della folla. Quando egli cede oppure scappa, la popolazione ritorna in sé, ricompare un divario ragionevole tra i suoi sostenitori ed i suoi oppositori.

Nel 2005, nelle ore successive all’assassinio dell’ex Primo ministro Rafik Hariri, in Libano si diffonde la voce che sia stato ucciso dai « Siriani ». L’esercito siriano, che — in virtù dell’Accordo di Taëf — mantiene l’ordine dopo la fine della guerra civile, viene dileggiato. Il presidente siriano Bashar el-Assad è personalmente messo in causa dalle autorità statunitensi, cosa che per l’opinione pubblica vale come una prova. A chi fa osservare che — malgrado momenti tempestosi — Rafik Hariri è sempre stato utile alla Siria e che la sua morte priva Damasco di un collaboratore essenziale, si ribatte che il « regime siriano » è di per sé così malvagio da non potersi impedire di uccidere anche i suoi amici. I Libanesi reclamano a gran voce uno sbarco dei GI’s per cacciare i Siriani. Ma, tra la sorpresa generale, Bashar el-Assad, considerando che il suo esercito non è più il benvenuto in Libano mentre il suo spiegamento gli costa caro, ritira i suoi uomini. Vengono organizzate delle elezioni legislative che vedono il trionfo della coalizione « anti-siriana ». E’ la « rivoluzione del cedro ». Quando la situazione si stabilizza, ognuno si rende conto che, se dei generali siriani per il passato hanno depredato il paese, la partenza dell’esercito siriano non cambia niente economicamente. Soprattutto, il paese è in pericolo, non ha più i mezzi per difendersi contro l’espansionismo del vicino israeliano. Il principale leader « anti-siriano », il generale Michel Aun, si ravvede e passa all’opposizione. Furibonda, Washington moltiplica i progetti per assassinarlo. Michel Aun si allea a Hezbollah attorno ad una piattaforma patriottica. È tempo : Israele attacca.

In tutti i casi, Washington prepara in anticipo il governo « democratico », il che conferma che si tratta di un colpo di Stato mascherato. La composizione della nuova squadra è mantenuta il più possibile segreta. Ecco perché la designazione del capro espiatorio si fa senza mai ventilare alternative politiche.

In Serbia, i giovani « rivoluzionari » filo-USA scelgono un logo appartenente all’immaginario comunista (il pugno alzato) per mascherare la loro subordinazione agli Stati Uniti. Prendono come slogan « E’ finito ! », federando così il malcontento contro la persona di Slobodan Milosevic che rendono responsabile dei bombardamenti del paese eppure effettuati dalla NATO. Questo modello viene riproposto più volte, ad esempio dal gruppo Pora ! in Ucraina, o Zubr in Bielorussia.

Una non violenza di facciata

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